Il pozzo dell’amore – Raccolto da Vincenzo Capodiferro

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IL POZZO DELL’AMORE


«Bene che novia oggi a Caliuvo?» mendicavano i marmocchi che parevano tanti piccoli nani d’aspetto molto strani, quasi come orchi si erano allontanati dalle quattro case di Caliuvo per addentrarsi nell’antica foresta incantata. Stavano come tanti piccoli uccelletti ad aspettare il vermicello dal becco amorevole di una madre.

Allora il vecchio Cimento dalle guance vellutate e dalle mascelle dondolanti cominciò a balbettare: «vi racconterò oggi la storia della giovane Calandra».

«Il popolo dei Ravasini aveva un re glorioso e di avanzati anni e si chiamava Colone. Colone aveva preso in moglie la regina degli Ateidi, Romilda, e i due popoli si erano uniti. Avevano un solo figlio, bello come il sole, Dolco e questo era un giovane già maturo, ma non si voleva sposare. «Perché figlio mio,» ripeteva sempre il vecchio Colone «non vuoi sposarti? Noi siamo fatti grandi e fra poco moriremo. A chi lasceremo il nostro regno? Trovati una principessa degna del tuo casato e fatti una regale famiglia».

Dolco torceva le labbra in segno di disgusto: «Non voglio sposarmi! Esiste ancora una donna onesta in questo regno?». E i suoi insistevano sempre in queste tiritere, senza raggiungere mai un accordo sulle nobili fanciulle che gli venivano di volta in volta presentate in occasione delle feste alla corte, o dei balli organizzati apposta per fargli scegliere una dama. Molte dignitarie lo volevano in marito, ma Dolco non ne voleva sapere.

Dolco era un giovane molto intelligente e studiava sempre. Una volta nella biblioteca del castello, tra gli scaffali che non finivano mai, aveva trovato un vecchio libro di ferro arrugginito dove lesse la storia della giovane Calandra. Subito andò dal bibliotecario, sapeva molte cose. «Bene! Oronzio mio beato, tu che molti anni hai attraversato: dimmi dov’è la giovane Calandra, la bella donna, in quale landra?». Oronzio taceva. Sapeva che le avrebbe prese da re Colone, ma dopo tante insistenze parlò: «La giovane Calandra si trova in un pozzo, molto profondo al centro del mondo, chi l’ha mai trovata? Chi la cerca è un pazzo, si rivela solo al pudibondo».

Dolco non se lo fece dire una seconda volta che subito si mise in cammino alla ricerca del pozzo perduto dove giaceva la giovane Calandra. I suoi non volevano che partisse e neppure i nobili e i cavalieri del castello. «Ma dove vai? Ce ne sono tante qua,» ripeteva affettuosamente la madre Romilda. «Ti accompagniamo noi!» rispondevano in coro i cavalieri con tutto l’esercito appresso. «No! Devo andare da solo,» insisteva Dolco, «altrimenti Calandra non si rivelerà a me!». Si vestì con abiti da poveruomo, prese un bel mulo e si mise in cammino.

Lungo la strada Dolco chiese a molti, ma nessuno aveva mai sentito parlare di lei. Dopo aver fatto cento miglia e attraversato foreste, montagne e villaggi si fermò in un posto chiamato Tornatore. Mentre il principe Dolco stava mangiando la sua povera colazione sotto l’ombra di una bella quercia si avvicinò un vecchio stanco e molto avanzato negli anni, dalla barba bianca come la neve e tutto vestito di oro il suo ornamento che lo ricopriva interamente. «Tu cerchi Calandra, la giovane di sangue e di latte?». «Eh! Come fate a saperlo?» rispose sbigottito Dolco con flebile voce. «Io so tutto, Dolco!», «siete un mago, per caso?», «io sono Melchiorre, ed ho trecento anni». «Aiutatemi, signor Melchiorre, vi prego, aiutatemi a trovare Calandra! Da molti giorni sono in cammino e nessuno mi ha saputo dire niente, ma voi signore, siete stato l’unico ad aprirmi gli occhi, vi prego! Vi prego!». Singhiozzava più forte che potesse, quasi inginocchiato e toccando quella sua lunga barba che scendeva lungo il costato fino ai piedi. Melchiorre con voce tonante e cupa, quasi come se fosse un fantasma che era apparso di là or ora: «Vai Dolco, va’! A cento miglia a nord per questa strada troverai un vecchio pozzo abbandonato, molto antico, avrà più di mille anni, c’è della buona acqua sotto, ma nessuno lo usa più da molto tempo. È il pozzo di Palisidro. Va’ e chiama Calandra, la giovane di sangue e latte. Essa è nascosta nel pozzo ed aspetta da molto tempo qualcuno che la visiti. Se ti chiede qualcosa, ecco, dalle questo gingillo d’oro. Le donne vanno pazze per esso».

Subito Dolco ringraziò il vecchio canuto baciandogli più volte la barba e si mise velocemente in cammino a dorso del suo bel mulo nero. Dopo tanto arrivò al pozzo di Palisidro. Si trovava in un bel giardino, pieno di fiori e di frutti di ogni specie ed era pieno di acqua. Dolco rimase estasiato da quella vista e si mise a cibarsi dei prelibati e deliziosi frutti che trovava. Seguì il consiglio del vecchio e cominciò a chiamare Calandra. Nessuno rispondeva. Si affacciò nel pozzo tutto imboccato di candido marmo e pieno d’acqua fino all’orlo, tanto che Dolco poté berne in quantità, bella fresca. Si mise di nuovo a gridare forte: «Calandra! Calandra! Giovane di sangue e di latte! Calandra, Calandra, giovane di sangue e di latte!». Ed ecco affacciarsi dal fondo del pozzo, timidamente, una bellissima giovane donna, tutta abbigliata di zaffiri splendenti ed oro e da una veste di seta avvolta.

Dolco rimase a bocca aperta e non riuscì più a dir parola, e tese la mano per consegnare il gingillo di oro che gli aveva dato Melchiorre ma essa subito disparve nel pozzo e non si vide più. Dolco continuò a chiamarla per tutto il giorno, ma ella non ricomparve. Dormì la notte vicino al pozzo ed il mattino seguente riprovava e stava sempre a chiamare, ma di Calandra non ne vide più nemmeno l’ombra. Rimase molto deluso ed amareggiato e pianse per molto tempo.

E camminando piangendo piangendo sulla via del ritorno si fermò in un villaggio lì vicino. Il nome del villaggio era Calosse. Si fermò sotto una palma ombrosa a riposare, quando si avvicinò un vecchio dalle vesti argentate e con una lunga barba grigia che gli arrivava fino ai piedi. «Che c’è giovane principe? Perché sei così triste? Eh! Perché la giovane Calandra è…», «è scomparsa! …» e così tra lamenti cominciò a raccontare a lui tutta la sua avventura. Poi alla fine chiese: «Ma voi chi siete, signore? Come fate a sapere che io sono un principe? Non vedete che sono vestito di stracci?». «Eh! Dolco Dolco! Io sono Baldassarre ed ho duecento anni, sono molto vecchio. Orsù va’. So io dove si trova Calandra. Vai a duecento miglia sulla via dell’Occidente, attraversa le montagne di Forcan, e troverai il pozzo di Tulonia, una città abbandonata da molti anni. Quando sei vicino al pozzo e chiami Calandra, appena esce afferrala per i capelli. E se essa ti domanderà: «Cosa hai?». Ecco dalle questo prezioso monile di argento. Le donne sono affascinate dall’argento.

Subito Dolco si mise in marcia verso Tulonia e dopo giorni attraverso le ripide montagne di Forcan, per angusti sentieri giunse ad un ameno semipiano arroccato al monte Forcanio ed intravide l’antica città abbandonata. Subito entrò in quel cimitero di case diroccate, visitò brevemente i ruderi del tempio e del castello dell’antico Re Osvaldo, fuggito insieme al suo popolo dal mare di Atlante. Non c’era niente, tranne qualche bacca e frutto selvatico che subito Dolco raccolse e divorò. Camminando poi per le strade inframmezzate da vecchie facciate di palazzi attempati qua e là, giunse in una grande piazza al cui centro svettava un bel pozzo tutto rivestito di pietre ben levigate e fregiate. Corse e si avvicinò, c’era una bella carrucola d’argento vivo ed un vecchio secchio. Lo buttò e dopo un po’ arrivò al fondo. Ne trasse della buona acqua da bere. Con tutta calma si mise a chiamare Calandra, come aveva fatto al pozzo precedente: temeva di non vedere più la splendida ragazza o peggio, di perderla di nuovo.

Ed ecco affacciarsi una bellissima giovane, tutta rivestita d’argento e di lapislazzuli. Estasiato Dolco l’afferrò per i capelli dorati e non la fece scappare. «Oh che bel giovane è venuto a trovarmi! Qual è il tuo nome e cosa hai per me?». «Io sono il principe Dolco e vengo dalla lontana reggia di Ati per conoscerti, mia principessa. Ecco ti ho portato in dono questo monile di puro argento, accetta la mia offerta per te. Chiedo la tua mano… ». Non fece neppure in tempo a proferire queste parole che Calandra addolorata e piangente: «Mi fai male! Mi fai male!», vociava quasi inghiottendo le parole nelle sue morbide labbra rosee. Subito i suoi capelli si sciolsero come anguille dalle mani di Dolco che la teneva forte per non perderla di nuovo e Calandra ricadde nel fondo del pozzo. Scomparve di nuovo e non fu più vista, nonostante Dolco si sgolasse a richiamarla fino a perdere la voce.

Oramai non erano rimaste neppure lacrime nei suoi occhi. «Oltre al danno, la beffa!» ripeteva tra sé adirato e poi si metteva ad urlare tanto che l’eco risuonava tra tutti quei palazzi disabitati: «Calandra! Calandra!» e poi se la prendeva contro Melchiorre e Baldassarre che l’avevano preso in giro. Era già sera e Dolco pensò di fermarsi, andò a raccogliere le uova di qualche gallina selvatica che era rimasta in quella sperduta città, accese un bel fuoco e li arrostì, poi andò a legare il mulo in una di quelle stalle abbandonate e trovò un cantuccio dove passare la notte, che non si attardava a venire. Una grande luna piena inargentava tutte le pietre di quel posto incantato. All’alba Dolco si mise in cammino, questa volta deciso di tornare a casa senza più ascoltare le parole vane di quei vecchi folli che incontrava lungo la strada.

Ed ecco ritornando si fermò al villaggio di Azzaro, che si chiamava così perché era popolato di fabbri che lavoravano il ferro, che non mancava da quelle parti, essendovi tante miniere di metalli. Si riposò un attimo, entrò in una taverna e bevve del vino quasi a ubriacarsi. Poi uscì e si sedette sotto l’ombra di un ardimentoso e contorto faggio a dormir ebbro. Si avvicinò un vecchio fabbro, tutto sporco e consunto. Vestiva di stracci bruciacchiate nella fucina in cui lavorava. Aveva una bella barba nera che quasi gli scivolava alle ginocchia per quanto era lunga. «Oh tu che fai bel giovane in questo perduto villaggio? Donde vieni? Ti sei perduto? È difficile vedere facce nuove da queste parti e la tua bella non passa inosservata». «Vattene via!» accennò Dolco con occhi arricciati, non mi tormentare, tu mi pari Melchiorre travestito, brutto diavolo di uno stregone malvagio!». «Hai visto Melchiorre, mio fratello! E cosa ti ha detto?». Non finì di aprir bocca che Dolco gli tirò addosso lo zaino che aveva al collo mentre con l’altra mano si asciugava le lacrime che scendevano sulla tenera faccia. «Vattene via! Vattene via! Lasciami in pace! Non voglio più vederti! Tu assomigli a quegli altri due ladroni che hanno preso in giro un povero ragazzo che da giorni e giorni è fuori casa a cercare questa Calandra. I miei parenti si preoccuperanno. Non vedono che tornano manderanno l’esercito a cercarmi. E poi mi daranno in sposa chi vogliono loro. Quelle oche che stanno a corte… Non avessi mai trovato quel maledetto libro di ferro…» «Il libro di ferro l’ho costruito io!». «Ah! E pure questo!», Dolco non sapeva che tirare addosso al vecchio fabbro. «Aspetta giovane, parliamone! Parliamone, ti aiuterò! Te lo prometto! Ti aiuterò…» così preso da quelle buone parole Dolco si calmò, abbracciò quell’uomo forte e poderoso e chiese perdono di essersi comportato in quel modo, lo aveva fatto in preda al dispiacere. E tutti quegli orchi nani piangevano anche loro commossi nell’ascoltare il racconto di Cimento. «E poi come è successo? Povero Dolco!», sentivi mormorare nella baita di Cimento mentre continuava a raccontare: «Io sono Gaspare ed ho cento anni. Ecco vai a trecento miglia a est verso il deserto del Tartaro e troverai presso l’oasi Sibasia un pozzo abbandonato, ormai in disuso da molti anni, è il pozzo di Upanio. Chiama la giovane di sangue e di latte e quando uscirà, se ti chiederà cosa le hai portato in dono, tu le risponderai, «ferro di Azzaro».

Dopo molti giorni Dolco, seguendo le carovane dei mercanti, giunse nel deserto verso l’oasi di Siba, chiese del pozzo ed infine lo trovò. Era in una landa desolata e solitaria, tutto di grossolane pietre accumulate senz’ordine. Si affacciò e vide che non aveva fondo. Provò a tirare una pietra, ma non sentì nessun tonfo. Pensò turbato tra di sé «e chi ci può bere qui, non c’è più acqua?». Seguì il consiglio del vecchio fabbro e cominciò a chiamare di nuovo e per l’ennesima volta Calandra. Ed ecco di nuovo ella affacciarsi dalla grata del pozzo tutta vestita di cenci, ma pur sempre bella. «Tu sei Calandra? Come mai sei vestita così?», «Aiutami ad uscire!». Allora Dolco ruppe la grata con lo strumento di ferro dell’antico fabbro, porse la mano per prenderla e poi le diede in dono quella strana clava. Calandra non disparve. Dolco, piangendo, questa volta per la gioia, l’abbracciò e la strinse forte per molto. Era molto bella, dai capelli dorati e dalla faccia incantevole, rosea e vellutata. «Grazie! Grazie per avermi liberata! Chi sei bel giovane? Mai nessuno mi aveva scoperto, sono stata qui dimenticata per molto tempo!». «Chi ti ha messo qui dentro? Perché?». «Fu re Orcone, per punirmi del rifiuto che gli avevo fatto ed allontanarmi dalla sua corte, ove io ero serva. Allora il suo fedele Lugino mi rinchiuse in questo pozzo ed ogni giorno mi mandava a buttare dall’alto le cibarie».

E così subito si rimisero in cammino amandosi l’un l’altra, e tra tenere carezze arrivarono dopo tanto ad Ati. Entrarono in città in gran festa dopo che il principe Dolco fu riconosciuto, mancava da molto infatti e lo avevano dato per disperso, nonostante il vecchio e arguto re Colone avesse provveduto inviando dei messi. Dopo poco si sposarono e vissero forse ancora non felici, ma contenti, almeno per quel momento. «Perché non furono felici? Chiesero sbigottiti i nani? Cosa è successo?». «Ascoltate il seguito della storia».

Tratto da “Le novie di Caliuvo”, inedito

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